La lezione di Matt Stuart sulla street photography

Matt Stuart è oggi uno dei più noti street photographer al mondo. Recentemente chiamato alla Magnum, ha speso circa 20 anni della sua vita nelle strade di Londra. Per chiunque si approcci oggi alla street photography Matt Stuart è un sicuro punto di riferimento.

Personalmente non l’ho mai incontrato anche se spero di poterlo fare un giorno, tuttavia, come per molti, è stato ed è un esempio per me di come ci si possa approcciare alla street photography ed il suo libro “All That Life Can Afford” (“Tutta quella vita che puoi permetterti”) oggi è uno di quei libri che bisognerebbe continuamente studiare: 80 fotografie scattate da Matt a Londra fra il 2002 e il 2015.

Matt racconta che la sua fotografia è nata da un’ossessione, una ossessione a percorrere per molti anni le stesse strade di Londra dove ha catturato moltissime immagini. Questa potrebbe essere la prima lezione di Matt sulla street photography: percorrere e ripercorrere le strade in modo, se vogliamo, ossessivo e ripetitivo.  Racconta di scattare almeno tre rullini a giorno (da quanto si legge nel suo sito per la street photography usa una Leica MP con un 2/35 Summicron caricata con Fuji Superia 200/400) e non esce mai di casa senza la macchina fotografica.

Nell'interazione con le persone Matt ammette che la sua è un'aspirazione bressoniana, cioè catturare la scena senza essere notato. Non vuole intervenire o in qualche modo condizionare ciò che fotografa e, probabilmente anche per per il suo approccio, non ha quasi mai avuto problemi in strada. Ma sottolinea come sia principalmente un atteggiamento mentale quello di porsi come colui che non sta facendo nulla di male: in strada non è aggressivo.

Certo oggi si viene più indicati se si scatta una foto in strada a qualcuno con una macchina fotografica che con uno smartphone, ma questo è un po' il prezzo da pagare. Tuttavia egli ha un atteggiamento schivo e tenta a scattare più foto possibili prima di esser notato, districandosi velocemente da situazioni complicate.

Impressiona il numero di situazioni curiose che sia riuscito a catturare, ma non bisogna dimenticare che sono spesso frutto del tempo e di arduo lavoro sulla scena. Ad esempio nella famosa foto del diavolo e del ragazzo con la macchina bloccata da una ganascia, Matt racconta che nel primo scatto il ragazzo non c'era nella foto, entrando solo in uno scatto successivo.

Il suo approccio tecnico è l'utilizzo della distanza iperfocale per far fronte alla velocità con cui ci si muove nella strada. Utilizzando un f/11 a 1/500 (in giornate luminose) con il 35mm ad una distanza di circa 3,5 metri è ragionevolmente sicuro di avere la scena perfettamente a fuoco. Fondamentalmente è in grado di variare la messa a fuoco del suo obiettivo manuale per un fuoco vicino (intorno ad 1,5 metri) ed un fuoco lontano (oltre 1,5 metri). Non si lascia distrarre da quello che avviene intorno alla scena ma è costantemente concentrato sulla scena principale.

Matt Stuart ha spesso raccontato alcuni suoi scatti ad esempio in quello scattato al parco dove si vede un uomo su una panchina giocare con un cane ed un altro signore con un bambino ed un palloncino verde che gli copre completamente la faccia, Matt racconta che l'ha scattata da molto vicino con una Leica ed un 28mm ed ha fatto circa 15 foto senza esser notato, l'invisibilità, racconta sempre lui, è una delle sensazioni più belle che si possano provare.

Una delle caratteristiche più interessanti della sua fotografia è la connessione fra gli elementi di una fotografia; ad un esame attento le sue fotografie raccontano la vita attraverso gesti e colori che mostrano sempre una interazione fra loro. Molti scatti a prima vista possono essere il frutto del caso o della fortuna ma dobbiamo sempre ricordarci le parole di Seneca quando affermava che

"La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l'occasione" 

 

La sua principale filosofia si riassume in:

"Compra un buon paio di scarpe comode, tieni la macchina intorno al collo sempre, si pronto, paziente, ottimista e non dimenticare di sorridere".

All photos © Matt Stuart

Lezioni per una buona fotografia: Leonard Freed

© Leonard Freed / Firenze, 1958

© Leonard Freed / Firenze, 1958

Leonard Freed è stato uno dei più famosi fotografi del XX sec., lasciandoci in eredità una vasta produzione dalla quale come cultori della buona fotografia possiamo ricavare alcune importanti lezioni.
Leonard Freed nacque da genitori ebrei originari dell’Europa dell’Est a Brooklyn (New York) nel 1929 e le sue origini segnarono gran parte della sua attività di fotografo negli anni seguenti. Voleva diventare pittore ma nel 1953, mentre si trovava nei Paesi Bassi, inizia a scattare fotografie e scopre la sua vocazione. Cinque anni più tardi, nel 1958, ad Amsterdam realizza un reportage sulla comunità ebraica.
Dal 1961 inizia a viaggiare molto realizzando nel contempo molti reportage: fotografa i neri d’America fra il 1964 e il 1965, il conflitto d’Israele nel 1967-68, la guerra del Kippur nel 1973 e il dipartimento della polizia di New York fra il 1972 e il 1979. Nel 1972 entra nella Magnum. Fra le mete dei suoi viaggi ci fu l’Italia che amò e raccontò diffusamente. 
Leonard Freed morì a New York il 30 novembre 2006.

La fotografia racconta chi siete

© Leonard Freed / Napoli, 1958

© Leonard Freed / Napoli, 1958

“In ultima analisi la fotografia riguarda chi siete. E’ la ricerca della verità in relazione a voi stessi. E ricercare la verità diventa un’abitudine”.

Quando scattiamo fotografie scattiamo verso un soggetto, ma indirettamente scattiamo anche dietro, verso di noi. La fotografia mostrerà il nostro “sentire” verso la scena ripresa.
La fotografia che scattiamo racconterà qualche cosa di chi la scatta e un intero progetto fotografia sarà in grado di spiegare come il fotografo vede l’argomento. In questo la fotografia, come dall’origine del nome, è una forma di scrittura. Anche quando cercheremo di essere distaccati e vorremmo solo descrivere, in realtà eserciteremo la massima forma di scrittura creativa.
Non necessariamente avremo bisogno di ricordarci di questa curiosa proprietà della fotografia, ma ci basterà sapere che nel momento in cui l’otturatore scatterà avremmo prestato i nostri occhi ad ogni futuro spettatore della nostra immagine ed in quella immagine ci saremo anche noi stessi. Non come fa il pittore che ridisegna la realtà fino a piegarla al suo animo, ma togliendo piuttosto che aggiungendo, mostrando un nuovo punto di vista per la realtà o semplicemente evidenziando un aspetto e inducendo uno stato d’animo.
Leonard Freed ci racconta ancora come lui si poneva di fronte alla fotografia:

“Sono come uno studente curioso, che vuole sempre imparare. Per poter fotografare devi prima avere un’opinione, devi prendere una decisione.”

E ancora

“Fotografare è quindi imparare continuamente, avere lo spirito di un bambino pur essendo un adulto”

Fotografare è quindi perdersi come un bambino, alcune volte bisognerebbe abbandonare tutto quello che si è appreso della fotografia e riscoprire il desiderio di fotografare che si ebbe quando, per la prima volta, si prese in mano una macchina fotografica. Ogni cosa in quel periodo appariva curiosa e meritevole di esser fotografata, oggi, purtroppo, le sovrastrutture psicologiche e le conoscenze nel campo fotografico inibiscono spesso l’istinto fotografico creando delle gabbie e dei cliché dove rinchiudiamo il “bambino fotografo” e curioso che è in ognuno di noi. Rompere quella gabbia dovrebbe essere il primo impulso per una buona fotografia.

La fotografia deve raccontare una storia

© Leonard Freed / Venezia, 2004

© Leonard Freed / Venezia, 2004

“La fotografia deve raccontare una storia, la gente deve guardarla come se stesse leggendo una poesia. Una buona fotografia deve essere come un piccolo poema.”

Spesso ci preoccupiamo di spiegare le nostre foto, questo inevitabilmente mostra il limite della nostra fotografia. Una fotografia riuscita non dovrebbe aver bisogno di nessuna spiegazione, dovrebbe contenere tutto al suo interno senza  bisogno di altre parole.
In sostanza il nostro linguaggio non dovrebbe aver bisogno di una traduzione per poter essere compreso:

“La foto non deve avere bisogno di una spiegazione, deve trasmettere un messaggio forte di per sé. Non dovrebbe essere accompagnata da una didascalia. Altrimenti non è una buona foto”

© Leonard Freed / Roma, 1958

© Leonard Freed / Roma, 1958

Ancora una volta Leonard Freed ci avverte, senza giri di parole, che la foto deve parlare da sola. Sia che si tratti di una singola fotografia o di un progetto fotografico, la storia deve essere chiara a chiunque la osservi.

“Le fotografie dovrebbero parlare da sole la loro lingua.”

La macchina fotografica è parte dello sguardo

© Leonard Freed / Dusseldorf, 1965

© Leonard Freed / Dusseldorf, 1965

“Prima di tutto occorre che ci sia una buona composizione che possa funzionare come astrazione, che è come le fondamenta di una casa: se non ci sono delle buone fondamenta la casa crolla.”

I principi fotografici che Leonard Freed ci dispensa sono pochi ma basilari e primo fra tutti della composizione. Se guardiamo le sue fotografie ci accorgiamo che l’inquadratura è spesso perfetta, mai lasciata al caso.
Inoltre notiamo un’altra importante questione: l’alternarsi di formati orizzontali e verticali a seconda del caso. Spesso si tende ad essere schiavi di un modo di inquadrare (sempre in orizzontale o sempre in verticale) senza concederci di poter trovare l’inquadratura giusta in un formato diverso. Nello scegliere le nostre inquadrature dovremmo avere la libertà mentale di provare uno scatto verticale e orizzontale a seconda del caso.
Egli cammina nei vicoli delle città, analizza le situazioni che vede e scende in profondità, non si ferma agli aspetti estetici e nel far ciò ha sempre presente i principi della composizione. Spesso realizza fotografie di persone con lo sguardo in macchina, posati. Lui non è il fotografo del momento decisivo come lo era Cartier-Bresson. Leonard Freed racconta storie di cui i suoi soggetti sono spesso gli attori. Non sempre l’uomo è il soggetto principale delle sue foto, spesso lo diventa solo in relazione all’ambiente.

 

© Leonard Freed / Napoli, 1958

© Leonard Freed / Napoli, 1958

Il suo "momento decisivo" non è fatto quindi di un istante, ma di ricerca, una ricerca costante dell'inquadratura migliore, del momento in cui la storia si svela.

© Leonard Freed

© Leonard Freed

© Leonard Freed / Baltimore, 1964

© Leonard Freed / Baltimore, 1964

“La macchina fotografica, di cui Freed faceva un uso istintivo (regolava l’esposizione a occhio, senza affidarsi all’esposimetro), divenne parte del suo sguardo. Quando guardiamo una delle sue immagini, non facciamo altro che vedere con i suoi occhi” (da “Io amo l’Italia”).

“Oggi la mia attrezzatura prevede poca roba, perché se perdi tempo a cambiare obiettivo il mondo se ne va. E’ più importante cogliere l’attimo piuttosto che riflettere sull’attrezzatura migliore in quell’attimo. Uso soprattutto 35 e 50 mm”.

© Leonard Freed / Milano, 1992

© Leonard Freed / Milano, 1992

In buona sostanza una macchina e un obiettivo dovrebbero essere le scelte migliori per ogni bravo fotografo, il vincolo renderà liberi e migliorerà la fotografia.
Anche sulla disputa bianco e nero versus colore, Freed sarà drastico:

“Il bianco e nero trasmette meglio la personalità del soggetto senza che l’occhio dell’osservatore sia distratto dai colori.”

La fotografia come religione

© Leonard Freed / Napoli, 1956

© Leonard Freed / Napoli, 1956

“Per me la fotografia è una religione e io sono molto osservante. Bisogna cercare la verità, dire la verità, mostrarla al pubblico. … E’ importante che la gente creda alla foto cha sta guardando”

La fotografia come religione non come verità assoluta, quindi. Credere nella fotografia non perché essa è vera in senso assoluto, Leonard Freed avrà modo di chiarire asserendo:

“Fondamentalmente penso che ci siano fotografie ‘informative’ e fotografie ‘emotive’. Io non faccio fotografie informative, non sono un fotogiornalista, sono un autore, non sono interessato ai fatti. Io voglio mostrare atmosfere”

Nulla sta dicendo in merito alla “manipolazione” della fotografia, che, in fondo, non ci riguarda. Freed sposta l’asticella del contendere non alla banale manipolazione ma al messaggio: lui non è un fotoreporter.
Nelle fotografie che ci ha lasciato si supera il reportage e il messaggio di denuncia, Freed parte dall’analisi sociale in cui si trova per suonare le corde più artistiche del quotidiano.

“Quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere amichevole e neutrale” 
“E’ soltanto ciò che avviene per caso, la scintilla della vita, che dà verità alle cose”

© Leonard Freed / Haifa 1967

© Leonard Freed / Haifa 1967

Eli Reed scriverà di lui: “Era il perfetto esponente della vera fotografia Zen, perché andava ovunque e si lasciava guidare dalle fotografie”.
Lasciarsi guidare dalle fotografie che si hanno dentro, questa è la massima forma di fotografia Zen a cui dovremmo omologarci quando siamo in giro.

 

© Leonard Freed / New York City, 1963

© Leonard Freed / New York City, 1963


Ho visto la mostra "Il mondo a modo suo" di William Klein

William Klein è fra i fotografi viventi più controversi. Personalmente non posso che ammirare alcuni suoi scatti e rimanere sconcertato davanti ad altri. Ad ogni modo William Klein è un artista: non è un fotogiornalista, non è un fotografo di moda, non è un fotografo di reportage.


La mostra in corso a Milano ci concede l’occasione per ripercorrere la sua intera produzione e la sua evoluzione artistica. Le sezioni della mostra sono organizzate in tal senso partendo dalle prime astrazioni che espose al Piccolo Teatro di Milano nel 1952 invitato da Giorgio Strehler, e via via attraverso i lavori più noti su New York, Roma, Mosca, Tokyo senza dimenticare la moda, i provini a contatto dipinti e i film. C’è tutto, e purtroppo troppo.


C’è una carrellata su tutto ciò che William Klein è stato ed ha fatto ma, a mio avviso, questo ha tolto spazio proprio alla fotografia. Le fotografie sono scenograficamente enormi, ti avvolgano nelle loro dimensioni ma ti allontanano per poterle guardare. Le sezioni sono introdotte da enormi scenografie murali. I pannelli spesso montati in quattro fotografie accostate le une alle altre rendono le scene enormi e dove invece sono esposte fotografie e non pannelli queste vengono sovrapposte in file di tre o più foto o addirittura intere pareti di fotografie accostate le une alle altre. Tutto è molto scenografico.

E’ interessante vedere gli scatti più famosi di Klein in grande formato ma avrei voluto avvicinarmi alla fotografia per apprezzarne i dettagli ed entrare in sintonia con essa piuttosto che allontanarmi per vederla e rimanere vagamente distratto dalle altre fotografie intorno. Purtroppo oggi il senso comune della fotografia è quella di avere stampe a dir poco grandi, frutto forse dell’interesse dei galleristi per la fotografia e nel trattarla quasi a metro quadro.

Interessanti invece nella mostra sono i grandi pannelli che illustrano le sezioni.  Nella sezione dei printed contacts ad esempio si apprende come Klein vide la possibilità di inventare un nuovo tipo di oggetto artistico unendo pittura e fotografia.


Lo sguardo di Klein sulle realtà urbane da lui indagate ha sempre un filo conduttore che spiegherà bene recandosi a Tokyo: guardare e fotografare senza giudicare. Una lezione interessante, non esclusiva di Klein tuttavia, riguarda come non sempre e necessariamente sia interessante la fotografia che ritrae esseri umani in quella che comunemente viene chiamata street photography.

La mostra è in corso al Palazzo della Ragione a Milano fino all’11 settembre 2016.